
IL PRESIDENTE, FERNANDO ZILIO: “SE IL PAESE SI IMPOVERISCE E’ ANCHE COLPA DELL’INDUSTRIA CHE DELOCALIZZA E CEDE I CAPANNONI AI CENTRI COMMERCIALI DELLE MULTINAZIONALI”
“Chi ha i capelli bianchi lo ricorderà di certo: “Omsa, che gambe!” più che uno slogan era un’esclamazione, ma servì ad imporre all’attenzione di un’Italia allora in crescita un marchio che per le donne significava stile e charme. Stringe dunque il cuore sapere che un mito dei nostri anni migliori venga immolato sull’altare della delocalizzazione senza che nessuno si senta in dovere di richiamare l’industria italiana in generale al proprio ruolo ma anche alle proprie responsabilità”.
Prende spunto dalla chiusura dello stabilimento Omsa di Faenza, preferito ad una produzione low cost in Serbia, il presidente dell’Ascom Confcommercio di Padova, Fernando Zilio, per avviare una campagna a difesa del “made in Italy”.
“Mi sembra di capire – sostiene il presidente dei commercianti padovani – che si stia andando verso una divaricazione della nostra società: da un lato chi rimane a lavorare nel Paese, ne affronta le difficoltà e cerca, con fatica e abnegazione, di superarle. Dall’altro chi approfitta della situazione per “liberarsi” di lavoratori cercando magari di riconvertire i capannoni in centri commerciali con un doppio danno per il tessuto economico e sociale di riferimento: per le famiglie che non hanno più il reddito e per il commercio che si trova a dover combattere con una concorrenza, spesso multinazionale, infarcita di prodotti rigorosamente realizzati all’estero dove la manodopera sarà anche scarsamente qualificata, ma costa poco e, soprattutto, ha poche regole”.
Da qui la proposta del presidente dell’Ascom Confcommercio di Padova.
“Se l’Italia vuole rialzarsi – continua Zilio – dobbiamo tornare ad essere un Paese manifatturiero. E per essere un Paese manifatturiero i nostri industriali non possono continuare a delocalizzare senza sentire il peso morale di un impoverimento che è soprattutto loro precisa responsabilità. Per questo credo sia importante che i consumatori, all’atto di qualsiasi acquisto, pongano attenzione al luogo di produzione. Scegliere un prodotto “made in Italy” (e non solo “designed in Italy” come ormai avviene per buona parte dei bei nomi dell’abbigliamento nostrano e non solo dell’abbigliamento) significa mantenere i posti di lavoro e, semmai, trovare argomenti per incrementarli. Certo: va sostenuto chi produce con alle spalle un progetto culturale, premiando innovazione e tradizione e valorizzando non chi dice di fare “made in Italy” mettendo mattoni in Italia ma creando cinese (Prato insegna), ma chi dà valore aggiunto al territorio e alla cultura locali”.
“Il mio – precisa il presidente dell’Ascom Confcommercio di Padova – non vuole essere un proclama protezionistico. Nessuno credo possa minimamente pensare di chiudere i confini alle merci, anche perché non vedo perché si dovrebbe rinunciare ad una buona birra scura, originale irlandese, visto che l’isola verde è la patria di quel prodotto. Ma altresì non è logico poter pensare di indossare capi realizzati con tessuti ed in luoghi che nulla hanno a che vedere con la nostra qualità e la nostra tradizione o mangiare alimenti palesemente “taroccati” che nulla hanno a che vedere con la nostra cultura dell’alimentazione. In altre parole: l’Italia, che è diventata un grande Paese perché ha saputo realizzare ottimi prodotti, non può adesso permettersi di produrre solo Ferrari!”
Sarà sufficiente un appello in tal senso?
“Un solo ambulante – conclude Zilio – ha innescato la protesta nel mondo arabo. Le scelte di migliaia di consumatori possono realizzare una “rivoluzione” in grado di condizionare le scelte produttive della nostra industria. Ed è una “missione” che, a partire dalle calze, ma non solo, è soprattutto in mano alle donne”.
2 GENNAIO 2012
